

di Midori Yajima, Lupo Trek
In questo breve video presentiamo il team di Lupo Trek. Una volta al mese troverete sul nostro magazine un articolo riguardante natura, outdoor e conservazione realizzato dal team di questa organizzazione.
Una delle ragioni che ci porta a camminare sui sentieri è la ricerca di luoghi che portino lontano i rumori e gli umori della città in cui viviamo. Dai boschi nascosti dell’Appennino alle località più remote: foreste tropicali, savane, tundre, le immagini che vengono in mente quando si pensa a un luogo naturale incontaminato hanno sempre un elemento in comune: una natura selvaggia e quanto più lontana dalla mano umana.
Eppure, ecco l’incredibile. Questi stessi ambienti, così come la maggior parte di ciò che è naturale o selvaggio nell’immaginario comune, sono comunque frutto di una lenta e graduale azione di comunità umane. Fin dalla loro comparsa, gli esseri umani si sono inevitabilmente trovati a interagire con ciò che li circondava. La natura è un sistema altamente interconnesso per cui, come in un gioco di biglie, il cambiamento anche solo di un piccolo elemento ha ripercussioni sulla rete di relazioni che esso stabilisce nel corso della sua esistenza. Così una azione continua ma sempre nuova quale quella di caccia, domesticazioni, uso del fuoco, la costruzione di strutture sempre più imponenti e tecnologie di volta in volta più complesse, ha eguagliato in potenza le dinamiche che hanno governato la vita sul pianeta fino a quel momento.

Guardando solo al mondo delle piante, uno studio uscito sulla rivista Science ha dimostrato come la velocità con cui le comunità vegetali sono cambiate nel corso degli ultimi 4000 anni sia aumentata tanto da essere comparabile, se non superiore ai cambiamenti avvenuti durante l’ultima deglaciazione, e cioè tra 20 e 10 mila anni fa . Considerando che la temperatura media globale durante quest’ultima è aumentata molto di più rispetto al periodo preso in considerazione dallo studio (circa 6°C durante la deglaciazione rispetto a circa 1°C degli ultimi 6000 anni), significherebbe che le sole azioni degli esseri umani sarebbero state in grado di eguagliare fenomeni così imponenti e dalle conseguenze così profonde come le ere glaciali.
Questa firma sul pianeta non è nemmeno tanto recente. In un altro studio Ellis e colleghi osservano come già più di diecimila anni fa soltanto un quarto degli ambienti terrestri fosse effettivamente privo di segni di presenza umana, e che le aree non toccate dall’uomo fossero tanto rare allora quanto lo sono oggi. Come viene riportato dagli autori stessi: “territori ora caratterizzati come naturali, intatti e selvaggi hanno generalmente lunghe storie di uso umano”. Allo stesso tempo però, questo scenario apparentemente grigio offre qualcosa di inaspettato: lo studio mostra come in molti casi, aree globalmente caratterizzate da una forte ricchezza di specie si sovrappongano a zone abitate dall’uomo per millenni.
È facile, a questo punto, sentirsi disorientati. Queste evidenze sono infatti in netto contrasto con una visione che ha dominato il pensiero occidentale da centinaia di anni: quella degli esseri umani come entità fondamentalmente separate dal mondo naturale; la visione di un mondo naturale inteso come rifugio in cui noi siamo relegati a meri visitatori, e la percezione ì delle azioni umane come qualcosa di intrinsecamente dannoso, sempre e comunque. Gli stessi studiosi o policy makers non sono stati esenti dal ricadere in questo paradigma, guardando agli ecosistemi terrestri come entità a parte, ignorandone le possibili storie di utilizzo, specialmente da parte di comunità indigene. A corollario, le trasformazioni di matrice umana sono viste come recenti e distruttive. Tutt’ora il focus è spesso sugli effetti negativi di queste interazioni, tra estinzioni di specie, degradazione degli ambienti naturali e effetti a cascata dannosi sugli ecosistemi.
È innegabile che alcune società abbiano contribuito a questi fenomeni in passato. La storia però non è solo bianca o nera, e questo studio ci forza ad affrontare una realtà molto più complessa. Una nuova prospettiva, per esempio, sempre citando gli autori, è che: “ci sono evidenze sempre maggiori di come le pratiche umane abbiano anche prodotto benefici per gli ecosistemi espandendo alcuni habitat, rafforzando la diversità vegetale, provvedendo a funzioni ecologiche importanti come la dispersione dei semi, e aumentando la disponibilità di nutrienti nel suolo.”
Vivere e fare uso della natura non sembra essere stato di per sé causa primaria della attuale crisi ambientale. Gli autori dello studio non lasciano scampo: “con rare eccezioni, la causa primaria del declino della biodiversità, almeno in tempi recenti, è l’appropriazione, colonizzazione e uso intensivo di terre già abitate, utilizzate e modellate da società precedenti”.
Relegare l’uso umano della natura allo stato di disturbo di una dimensione che altrimenti sarebbe “libera” ha profonde implicazioni, non solo per chi quei sistemi li studia, ma anche per chi li amministra, con ricadute sulle politiche di gestione della fauna, del restauro ambientale, e dei fenomeni come gli incendi. Proprio quest’ultimi, cosiddetti “fire management”, sono solo una delle pratiche messe in atto da popolazioni locali, eredi di una conoscenza tradizionale accumulata e trasmessa da molto più tempo di un possibile tecnico che si sia successivamente “paracadutato” in un determinato luogo. Nonostante ciò, per molto tempo c’è stata la prassi di esclusione delle comunità indigene dai luoghi considerati importanti perché da preservare (con conseguenze a volte disastrose).
Quello che emerge è essenziale: per capire e sostenere la natura è necessario riconoscere questa connessione culturale che abbiamo con essa. Una conservazione efficace della biodiversità, ma anche dei benefici che gli esseri umani ne traggono, dovrebbe abbracciare questa eredità profonda, riconoscere e restaurare le connessioni tra società e territori, garantendo diritti e responsabilità.

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