
di Flavia Casali
Quando si pensa ad un paesaggio africano, ci si immagina un panorama vasto ed incontaminato, punteggiato di acacie e brulicante di fauna, dove l’uomo è una figura marginale e le leggi della natura sono le uniche a valere.
Purtroppo, di questi paesaggi ne sono rimasti ben pochi e la verità è che gli animali selvaggi, in Sudafrica, vivono all’interno di aree protette delimitate da recinzioni, meglio conosciute come “Game Reserve”.
Con l’avvento della colonizzazione e dell’urbanizzazione, l’uomo ha progressivamente ridotto gli spazi vitali degli animali, relegandoli in frammenti isolati di terra recintata.
E così, anche in queste terre che rappresentano l’ideale di natura selvaggia, la minaccia principale al benessere della fauna e della flora locale è la frammentazione dell’habitat.
Tuttavia, le recinzioni sono un male necessario in quanto tutelano l’incolumità, sia degli esseri umani, che degli animali selvatici. Immaginiamoci, infatti, se anziché lupi, orsi e cinghiali avessimo leoni, elefanti, rinoceronti, iene e simili, liberi per le strade delle nostre città: la necessità di queste barriere è evidente.
In Sudafrica, infatti, una grande percentuale della popolazione appartiene a comunità rurali dedite ad allevamento e agricoltura, spesso situate ai margini di grandi città e confinanti con le riserve naturali. Assicurare che questi grandi animali rimangano all’interno delle recinzioni rappresenta una misura fondamentale per prevenire il conflitto uomo-animale.
È da sottolineare che la barriera che costringe l’animale al suo interno proteggendo l’uomo ha, allo stesso tempo, la funzione di proteggere gli animali dal bracconaggio. I bracconieri che operano in Sudafrica, pur avendo obiettivi e approcci differenti, sono estremamente pericolosi, sempre armati e purtroppo spesso disperati e dunque pronti a tutto. Per questo motivo, la recinzione rappresenta solo una prima prevenzione, alla quale si aggiungono le unità anti-bracconaggio (APU-Anti-Poaching Unit) e le unità canine (K9).

Il paradosso della gestione del wild
Tornando a parlare di recinzioni, è evidente come queste influenzino significativamente il comportamento degli animali e le dinamiche di popolazione.
L’incapacità degli erbivori di migrare con le stagioni e la ridotta possibilità per i grandi predatori di allontanarsi dai propri nuclei famigliari (dispersal), causano un sovrasfruttamento delle risorse, un sovraffollamento e quindi una potenziale consanguineità degli individui (inbreeding). Questi aspetti sono in grado di compromettere la salute e la vitalità (fitness) delle popolazioni di animali selvatici, e quindi il benessere di interi ecosistemi.
Per queste ragioni, la gestione delle riserve sudafricane può richiedere un approccio talvolta intenso ed invasivo, e al termine di questa lettura potrà sembrare meno wild del previsto.
Le pratiche di gestione delle riserve in Sudafrica comprendono il controllo delle popolazioni di predatori e prede attraverso abbattimenti, rilocazioni, introduzioni di nuove specie e lo scambio/vendita di predatori con altre riserve per prevenire inbreeding. Un altro aspetto chiave è la gestione dell’habitat attraverso lo studio della vegetazione e la valutazione del suo valore nutritivo, implementando delle pratiche di gestione del fuoco per rimuovere il materiale morto e stimolare la crescita dell’erba verde; e ancora, il ripristino degli habitat degradati ed il controllo delle specie invasive. Inoltre, in alcune riserve si rende necessaria anche un’integrazione di risorse idriche attraverso la costruzione di pozze artificiali ed infine il controllo e la prevenzione dell’erosione del suolo.
È doveroso sottolineare che, nonostante quanto discusso fino ad ora, gli interventi antropici siano rigorosamente controllati e limitati al minimo indispensabile. Questi ultimi sono infatti attuati in base a linee guida specifiche, elaborate da esperti per garantire la massima sicurezza di persone ed animali e minimizzando al contempo interazioni ed interferenze. Gli animali all’interno della riserva mantengono pertanto i loro istinti naturali e comportamenti selvatici.


Una giornata da wildlife monitor
Il compito del tecnico faunistico o wildlife monitor, e cioè il mio compito, è quello di immergersi nella natura, entrare quasi a far parte di quelle misteriose dinamiche selvagge ed essere in grado di riportare/osservare eventuali squilibri o situazioni che richiedano l’intervento dell’uomo.
La giornata tipo è semplice, ma mai banale e non c’è mai una vera e propria routine. Gli orari cambiano con le stagioni e, seguendo i ritmi della natura, la giornata inizia poco prima dell’alba e termina al tramonto quando la luce si attenua, evitando le ore più calde, quando gli animali solitamente cercano riparo e di conseguenza la probabilità di avvistamento è più bassa.
Il primo obiettivo di un wildlife monitor in Sudafrica è accertarsi che gli animali si trovino all’interno della riserva e registrarne la loro posizione geografica, che consentirà, in seguito, di studiare gli spostamenti e le interazioni con gli altri individui.
Durante gli incontri viene anche preso nota delle condizioni fisiche, del comportamento degli individui e di eventuali cambiamenti (es. ferite, perdita di peso, ecc), raccogliendo così preziosi dati sul decorso di eventuali ferite, accoppiamenti e gravidanze. Inoltre, monitorando il successo di caccia dei predatori, e le loro preferenze di preda, si ottengono informazioni cruciali per la gestione delle popolazioni di ungulati selvatici.
Al fine di garantire una raccolta di dati utile e coerente però, è fondamentale saper riconoscere ciascun animale a livello individuale ed è quindi responsabilità del wildlife monitor quella di creare e tenere aggiornate le loro “carte di identità”. Per alcuni animali, come i ghepardi e i leopardi, il compito è semplificato dai pattern unici del loro manto; in altri casi, per i leoni o per gli elefanti, ad esempio, l’attività di riconoscimento richiede ore e ore di osservazione ravvicinata, studiando i più piccoli dettagli che li distinguono ed analizzando centinaia di foto.
In conclusione, il monitoraggio della fauna è quindi fondamentale per valutare lo stato di conservazione delle singole specie ed individuare eventuali minacce, comprendere meglio l’ecologia della specie, e soprattutto fornire informazioni utili per definire strategie di gestione coerenti ed efficaci.


La figura del wildlife monitor in Italia
La figura del wildlife monitor in Sudafrica è riconosciuta come indispensabile per il benessere della riserva e si avvale quotidianamente di tecnologie avanzate quali telemonitoraggio satellitare, ed un sistema di fototrappole distribuite strategicamente sull’intero territorio.
Il mondo della conservazione sta inoltre subendo una profonda trasformazione, abbracciando anche l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia, quali droni con termocamere, fototrappole che sfruttano la rete cellulare per trasmettere immagini in tempo reale e perfino l’intelligenza artificiale in grado di distinguere gli animali da potenziali minacce quali esseri umani o veicoli, per citarne solo alcune.
In Italia, le iniziative di monitoraggio sono spesso più frammentarie e concentrate su specifiche aree geografiche o specie isolate, e la figura del wildlife monitor, con lo stesso ruolo svolto nel contesto sudafricano, non esiste. Questo riflette un minor interesse economico e politico per la conservazione della natura nel nostro Paese, dove il turismo si basa principalmente sul patrimonio culturale. Tuttavia, nell’attuale scenario globale, la conservazione della natura non è più solo una questione etica, ma anche un’importante opportunità di business, con un elevato potenziale di generare investimenti e posti di lavoro. È possibile quindi che presto anche le nostre riserve sviluppino un più complesso e coerente sistema di monitoraggio della fauna e flora selvatica.


