La lupa capitolina

di Nicolò Macci


La lupa capitolina

Erano i primi caldi di maggio, e nella valle il ronzio degli insetti faceva sembrare di essere in prossimità di un alveare in ogni istante. L‘erba, colorita dai nuovi fiori e ormai alta nei prati, ci costringeva a passare nel fresco del bosco. Finalmente arrivammo alla fototrappola: le batterie erano ancora cariche e cambiai solo la scheda SD. Ero Con Pietro e Daniele, amici da quando le nostre gambe ci permettevano di giocare sotto i nostri palazzi. In quel momento non avevamo un pallone sopra l’asfalto rovente, ma non eravamo neanche lontani da dove siamo cresciuti, solo che da dentro un bosco, non potevamo più vedere i tetti delle nostre case. Quell’isolamento dalla società ci faceva sentire liberi, ci riconnetteva con quanto c’era di atavico e recondito in noi. Il Lupo ne era l’emblema. Quante camminate a vuoto alla ricerca delle sue tracce, nella speranza di incrociare nuovamente i nostri sguardi con il suo. Avendo a che fare con questo animale, capisci che l’incertezza è l’unica certezza. Ha sempre la capacità di sorprenderti. Proprio da questa innata abilità del lupo ho pensato che avrei cominciato a cercarlo non solo nelle zone più selvagge, ma anche nella riserva urbana a due passi da casa mia, nel cuore della città di Roma. Fortunatamente i miei amici erano lì a sudare con me, senza ovviamente mancare di schernirmi a dovere per questa mia assurda convinzione. L’importante per noi era stare insieme. Perso nei pensieri, dopo aver settato la fototrappola tornai a casa e mi sedetti sul divano. Misi la scheda SD nel computer. Mi rilassava vedere i video delle fototrappole e mi faceva sentire come un bambino davanti ad un uovo di Pasqua. Ogni volta mi chiedevo che sorpresa ci sarebbe stata dentro e mi stupivo sempre del comportamento degli animali.

Illustrazione di un lupo appenninico. (©Nicolò Macci)

Vedevo soprattutto cinghiali, ormai parte integrante del quartiere, almeno prima che la peste suina e gli abbattimenti non troppo selettivi li decimassero. Poi, mentre scorrevo i video mi fermai di botto: quel trotto, la forma snella e slanciata… era lui. Ero sicuro che fosse lui, anche se nel video riuscivo a scorgere solo un’ombra. Era passato distante dalla fototrappola. Avevo forse preso un abbaglio? Guardavo e riguardavo quindi quel video compulsivamente, ma alla fine era lì ed era tutto vero. Avevamo scoperto il lupo dentro Roma, all’interno del Grande Raccordo Anulare, a meno di un chilometro, in linea d’aria, da dove dormivo tutte le notti, a casa mia. Non mi sentivo più così solo. Sentii subito i miei amici, Pietro e Daniele, per raccontargli l’accaduto; dovevamo stare attenti a non creare allarmismi e ci promettemmo di non parlarne con nessuno. Da quel giorno cominciai a monitorare quel lupo, che scoprii poco dopo essere una femmina. Era sola e forte, sempre in forma. Una lupa che per anni non ha avuto bisogno di un branco per sopravvivere, e che aveva costruito il suo territorio nel raggio di pochi chilometri. Passava sempre di notte, ma cercavo una sua apparizione di giorno, almeno nelle fototrappole. Vano fu il risultato. Era troppo intelligente per muoversi in orari a lei scomodi dovuti dai troppi disturbi umani. Ci fu un periodo in cui capimmo con certezza dove dormiva, e quindi decidemmo di passare un’intera nottata appostati in un pratone sotto alla collina che aveva scelto come dimora. Scegliemmo una notte serena di luna piena, senza torce gli occhi si sarebbero abituati e avremmo atteso dal tramonto all’alba senza muoverci di un millimetro. La lupa era passata da lì subito dopo il tramonto, proprio la sera prima. Quella volta, con Pietro e Riccardo, non vedemmo anima viva: oltre noi solo un usignolo ci tenne compagnia nella notte e capii il perché del suo nome in inglese: nightingale.  Mentre eravamo in attesa mi sembrava di vedere la luna muoversi lentamente, composi una poesia nella mia mente e la imparai a memoria. Continuai a ripetermela come un mantra per evitare di scordarmela cercando di arrivare al mattino, per poi finalmente trascriverla su carta. Il fiume scorreva dietro di noi e poche volte in vita mia soffrii un freddo del genere. Ero vestito inadeguatamente ed è sbagliato sottovalutare la natura, anche a pochi passi da casa. Lezione imparata. Pietro, dopo appena un’ora si era già bevuto un termos intero di caffè… e non sapevo se sarebbe morto di lì a poco. In tutta la notte vedemmo solo un cinghiale e convenimmo, mentre tornavamo, che se fossimo rimasti anche solo un’ora di fronte ai secchioni dell’immondizia sulla strada, anziché quella notte nella riserva, avremmo visto almeno dieci cinghiali, un paio di volpi e magari anche degli istrici. Nonostante il freddo provato ed il fallimento però eravamo contenti, avevamo avuto il tempo per meditare, e ora sapevamo la difficoltà dell’impresa. Quella lupa era troppo intelligente. Rimaneva una chimera. 

I miei pensieri erano rivolti sempre a lei: quando stavo per addormentarmi, a volte, mi chiedevo se stesse bene o no. Ero spaventato dal fatto che avrebbe potuto attraversare strade trafficate, come sicuramente aveva già fatto per arrivare fin lì. Le macchine sono pericolose. Avevo anche paura che gli allevatori della zona avrebbero potuto avvelenare qualche carcassa per ucciderla. Gli uomini sono pericolosi. Scoprii, tempo dopo, che era tutta nera e quindi ibrida. Non causò mai danni a nessun allevatore e nessuno nel quartiere la vide mai di persona, finché semplicemente non smise di comparire anche dalle fototrappole. Non c’era più e non sapevo che fine avesse fatto. Avevo imparato così tanto da lei che neanche sapeva della mia esistenza. Conosceva al massimo il mio odore lasciato nei sentieri che condividevamo. Poco prima della sua sparizione, però, comparve un nuovo lupo, un giovane maschio, anche lui nero. Arrivò magrolino e più sfrontato della lupa che conoscevo. Frequentava le stesse zone della riserva, stavolta anche di giorno e attaccò il bestiame domestico che non era sorvegliato né da cani tantomeno da appositi recinti. Gli allevatori ancora non sapevano che i lupi erano arrivati in quella riserva. Era un fantasma ma c’era da anni. Il nostro silenzio era servito a poco, ma fortunatamente era una notizia arrivata solo a pochi. Col tempo anche il maschio cominciò, fortunatamente, ad essere più guardingo. Aveva imparato col tempo ad essere un fantasma, anche se nessuno glielo aveva insegnato. Era innato in lui grazie ai troppi anni di persecuzioni subiti dai suoi predecessori.

Nonostante i suoi nuovi atteggiamenti diffidenti, con la bella stagione avevo preso l’abitudine, dopo il lavoro, di andare in un punto panoramico aspettando di osservarlo. In realtà non so quanto volessi vederlo: sarebbe stato un suo errore farsi vedere in orari diurni. Credo che andassi lì in realtà solo per svanire dalla metropoli, nella metropoli. Perché ero sempre in un prato dove di fronte si apriva una bella valle, ma dietro, a poche centinaia di metri, avevo i palazzi a vista. Stavano dietro e non mi importava, non li guardavo. Avevo combattuto con la metropoli durante il giorno e in quel momento volevo solo godermi il fruscio del vento che faceva danzare i fili d’erba. Dopo un po’ mi sentivo un camaleonte che diveniva parte del paesaggio. In quell’anno quel lupo maschio non si palesò mai, ma non mi dispiacque avere ogni giorno il telefono in modalità aereo per qualche ora, passando il mio tempo ad osservare animali in città, che mai avrei pensato di osservare. Adesso ho voglia di riprovare quelle emozioni e quella calma, sarà che sono arrivati i primi caldi di maggio…

Un lupo ibrido si aggira di notte in una delle riserve della città di Roma. (© Nicolò Macci)

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