Racconti di viaggio: Churchill, Manitoba

di Michel Giaccaglia


Churchill, Manitoba, non appena si atterra nel piccolo aeroporto ci si rende conto che qui le formalità sociali e le apparenze non contano, caratteristica che accomuna tutte le terre di frontiera in cui si vive in condizioni estreme ed essenziali.

Qui si segna una immaginaria linea di confine oltre la quale si estende l’immensa tundra artica. Linea che a veder meglio non è poi così immaginaria, la baia di Hudson infatti costituisce un notevole limite fisico anche per i plantigradi padroni di casa, un confine ben più concreto fra la sopravvivenza e la morte per fame. Finché non si ghiaccia il mare gli orsi non possono procedere verso i loro territori di caccia nel grande nord.

Foto aerea da drone all’alba sulla banchisa ormai ghiacciata, gli orsi hanno cominciato la traversata della baia di Hudson. (© Michel Giaccaglia)
Orso polare, foto aerea da drone. Nella tiepida luce radente dell’alba, un orso polare vaga solitario per la tundra in attesa che il mare si ghiacci. L’orso è apparso improvvisamente, poco tempo per preparare il drone al volo, ancora meno per curarsi dei guanti adeguati. Quella mattina la temperatura era attorno ai -35C, il display e gli stick del radiocomando si sono presto ghiacciati, pilotare il drone con la punta delle dita scoperte è stata un’esperienza da non ripetere, ma ne è valsa la pena. (© Michel Giaccaglia)

La didascalia che spesso segue il nome Churchill è “the polar bears’ capital”, non viene solo da un abile strategia di marketing turistico made in America, ma anche e soprattutto da un dato di fatto consolidato centinaia di migliaia di anni antecedenti ai primi timidi insediamenti umani dei nativi: a fronte di poche centinaia di abitanti umani, nel periodo fra ottobre e novembre si possono contare fino a 1000 orsi polari in attesa che il mare si ghiacci.

Considerando queste cifre demografiche non è difficile dedurre che qui situazioni di conflitto uomo/orso sono quasi all’ordine del giorno, conflitti risolti spesso in maniera pacifica e quasi mai tragica per entrambe le parti. Fuori città in proposito si trova la “Bear Prison”, niente altro che un vecchio hangar militare in disuso degli anni ’50 convertito ad uso rieducativo. Qui vengono rinchiusi quegli orsi che nonostante le azioni di dissuasione con petardi e proiettili di gomma, continuano a frequentare assiduamente il centro residenziale di Churchill. Una volta anestetizzati e catturati vengono portati nella struttura e chiusi in una gabbia.

Facciata e ingresso della Polar Bear Holding Facility, aka “Bear Prison”. (© Michel Giaccaglia)

Dopo 2-3 settimane al buio e senza cibo verranno poi trasferiti in elicottero ad almeno 40 km a nord. L’intento è quello di far associare alla frequentazione di luoghi antropizzati un’esperienza traumatica. Provvedimento estremo, ma efficace, usato solo in rari casi recidivi, e sicuramente preferibile all’abbattimento.

La presenza di orsi in paese è presa molto sul serio dalla comunità, vista l’elevata pericolosità per gli abitanti che ne deriva. In passato non sono mancati attacchi fatali a persone e tentativi di intrusione nelle case da parte dei plantigradi, quindi onde scongiurare il ripetersi di questi episodi è stata istituita una ronda di pubblici ufficiali per la sorveglianza specializzata chiamata “Bear Patrol”. Soprattutto nelle ore notturne, in cui vige il divieto di gironzolare a piedi per il paese, i Ranger pattugliano l’abitato nel caso qualche orso faccia la sua comparsa, pronti ad intervenire con petardi, sirene e proiettili di gomma.

Uno degli edifici abbandonati nella marina di Churchill, molti dei quali decorati con enormi murales a tema. (© Michel Giaccaglia)

 Il Grande Nord, è quel posto indefinito ma anche decisamente reale dove tutto si riduce all’essenziale per la pura sopravvivenza, tanto che anche i colori si ridimensionano alla loro minima pretesa: bianco e nero.

Soprattutto bianco, la sensazione artica, quel bianco che dilata ancora di più gli spazi sconfinati del nord, dove l’immaginazione indugia spesso nel rivivere le avventure estreme dei grandi esploratori del passato, quel bianco in cui percepire l’eco di antiche mitologie, dove potenti entità sono il ghiaccio e il blizzard, spiriti misteriosi, sottili e persistenti. Quel bianco che domina sullo sguardo, sulla mente e sugli intenti. A volte essenziali elementi di dettaglio interrompono gli sfondi puliti, uniformi, senza fronzoli, al massimo un abete spolverato dal ghiaccio o un arbusto secco. Per gli amanti della fotografia minimalista questo è il paradiso. I soggetti si dilatano nello sfondo e ne entrano a far parte, a definirli restano solo pochissimi particolari, quelli fondamentali per comunicare la loro essenza, gli occhi sopra tutti.

Così uno scatto di otturatore può esprimere l’impressione di una volpe artica per quello che essenzialmente è: uno spiritello invisibile, silenzioso e leggero, una nuvola bianca nel bianco. Si nota solo per quei tre puntini neri, occhi e naso. Qui le volpi artiche sono estremamente confidenti, tanto che bisogna far attenzione non inciampare su di loro, ti stanno letteralmente fra i piedi.

Volpe artica nella tipica andatura a balzelli. L’artico ghiacciato è il luogo ideale per la fotografia minimalista.  Nel restituire la natura essenziale di questo animale, sempre presente ma poco evidente come un fantasma dell’artico, pochi elementi di dettaglio e non molto definiti, poco più che sfumature e dinamismo. (© Michel Giaccaglia)

Lo stesso vale per gli orsi, ma con risvolti decisamente diversi per l’incolumità personale. Compaiono e scompaiono da e nel nulla, per questo motivo è consigliabile scendere il meno possibile dall’auto o non allontanarsi, e nell’eventualità lasciare sempre gli sportelli aperti per una rapida risalita nei mezzi. Allo stesso modo è consigliato rimanere vicini alla guida armata, vivamente consigliata per avventurarsi fuori città.

Una volta avvistato l’orso tuttavia è molto facile perdere il senso della distanza in tutto quel bianco piatto con pochi riferimenti tridimensionali, soprattutto concentrati a scattare foto. Il plantigrado procede scaltro a zig-zag, lentamente, così da dare la sensazione di spostarsi solo di lato, quando in realtà si sta avvicinando, e in men che non si dica te lo ritrovi a pochi metri. Inoltre la sensazione che trasmette è quella di pura curiosità. Spesso è solo questa infatti, ma non bisogna sottovalutare la tattica del predatore finto disinteressato alla preda.

La tipica andatura “pigra” dell’orso polare che si staglia appena in minimi essenziali dettagli. (© Michel Giaccaglia)

L’ insieme del bianco sconfinato, l’idea della terra di frontiera, il freddo pungente, il vento inclemente, l’ansia latente del pericolo invisibile, rendono il luogo ancora più affascinante. Altre sensazioni da aggiungere alla collezione delle impressioni di viaggio. Perché in fondo il viaggio è quasi sempre una ricerca di nuovi mondi personali, modi di imparare il mondo e soprattutto se stessi nel mondo. I veri viaggi non spostano solo il corpo, ma anche la percezione della realtà, un incontro fra il mondo esterno e quello interno, una possibilità di riconnetterci con qualcosa che scopriamo contare davvero, come assolutamente è la natura selvaggia. Riscoprire la necessità di essere collegati con la nostra natura reale.

I mezzi di trasporto sono di vitale importanza in questo ambiente estremo, come rifugio dal predatore di casa ma anche dal freddo. Qui non è raro che si raggiungano temperature di -30C o -40C a cui va sommato il fattore vento (wind chill) per un totale di freddo percepito di -60 -70 C.

Quando si passa mezz’ora fuori dall’ auto presi a far foto, è facile non notare che le estremità si raffreddano rapidamente, finché non si sentono più i tasti della macchina fotografica e allora è già sparita da tempo anche la sensibilità al freddo. A questo punto la cosa più sbagliata da fare è risalire in macchina e sparare il riscaldamento al massimo. Il contrasto di temperatura è devastante per il corpo e lo si sente soprattutto su mani e piedi. I capillari ancora contratti dal gelo fanno resistenza al flusso del sangue che si riscalda e spinge provocando un dolore intensissimo, al pari di una martellata sulle dita. Dolore che ti arriva allo stomaco e al cervello.

Mezzo di trasporto customizzato non convenzionale ma decisamente efficiente. (© Michel Giaccaglia)

E’ necessario invece riscaldarsi gradualmente, senza fretta.

A proposito di mezzi di trasporto l’esperienza letteralmente più cool, è guidare sopra il mare ghiacciato. Le gomme che cigolano sopra quella immensa lastra lucida e liscia come vetro con centinaia di crepe e bolle d’aria che si intravedono nel suo spessore e relative incognite sulla tenuta al peso dell’auto. Non lo rifate a casa…

Nelle giornate di vento forte lungo le strade si incontrano muri di neve accumulata dal vento che sbarrano la via e che possono essere superati solo sfondandoli previa rincorsa e probabile impantanamento. Normale amministrazione dell’avventura nordica. In fatto di emozioni però uno dei primati spetta a quei tramonti in cui la luce tenta di scaldare almeno i colori. Di li a poco le temperature caleranno drasticamente così come il buio, eventuale aurora boreale a parte, e tutto diventerà ancora più ostile agli umani. Poco tempo ancora per contemplare la magia dei luoghi prima della notte glaciale. L’intensità dei momenti concentrati in cui sembra di sentirli più presenti, probabilmente non è solo una sensazione, ma un’energia quasi tangibile che ti circonda. E comunque sia, carpe diem.

Tramonto nella tormenta, con l’alba sono i rari momenti in cui il sole tenta di scaldare almeno i colori. E l’opportunità estemporanea di fissare un attimo irripetibile dell’essenza Artica, carpe diem. (© Michel Giaccaglia)

In pochi minuti si condensano la necessità del qui e ora e la percezione dello spirito del nord, che è inevitabilmente bianco, sottile e persistente. Ancora una volta il bianco dilata gli spazi, elimina i confini materiali ed immaginari, diventa spirito. Nei grandi spazi bianchi c’è posto per tutto, tutto è possibile ed esplorabile, le emozioni, le intuizioni e le suggestioni, nonché i miti e le leggende del passato. Nei grandi spazi bianchi, materiali o immaginari che siano, ti puoi muovere in qualsiasi direzione, sperimentare qualsiasi dimensione mentale e qualcosa di nuovo e diverso in te ne verrà fuori.

Fotografare nel blizzard, decisamente raccomandate fotocamera e ottiche tropicalizzate.

In questi grandi spazi c’è modo di cercare e molto da trovare. A volte invece è pura e semplice contemplazione. E’ il fascino del Grande Nord, un mal d’Africa artico che ti prende e ti tiene in gelida e favolosa estasi. Tra una folata di vento e l’altra, appare un’orsa che riposa nella foschia del blizzard. Accomodata tranquillamente a sonnecchiare, impassibile alle raffiche di vento e cristalli.

Per la maggior parte del tempo, in attesa che si ghiacci il mare, gli orsi dormono comodamente
incuranti delle temperature, sbirciando di tanto in tanto gli umani infreddoliti di passaggio.
(© Michel Giaccaglia)

Condizioni ideali in controluce con otturatore lento, poco tempo a disposizione, le emozioni incalzanti, il freddo magicamente sparito, c’è solo un fantastico istante artico da raccontare, che non deve assolutamente essere perso. Intendiamoci, nella mente non lo sarà mai, ma poterlo e volerlo condividere in una foto è d’obbligo, ne va della consapevolezza collettiva per la meraviglia del mondo…e non senza un pizzico fondamentale ed irrinunciabile di orgoglio misto a gelosia per l’esclusivo privilegio di questo “live”.

In tutto questo turbinio di vento, ghiaccio, non colori, emozioni, otturatori folli, aspettative e racconti da condividere al più presto, l’orsa, impassibile e pacifica se ne sta li a guardare, e con occhi eloquenti sembra dire: “ beh? umano, che ci fai tu qui ? ”

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