
di Andrea Daina Palermo
“È una cavalletta!” – Dal mio nascondiglio la intravedo pendere dal becco, in una sorta di bacio letale. D’altronde, non si sfugge da quella morsa progettata per non lasciare scampo alle prede. Come gli artigli, devono uccidere sul colpo, oppure fare più danni possibili per evitare qualsiasi sorpresa.
Osservare un rapace notturno a breve distanza è un’esperienza alla quale non mi abituerò mai. Questa sarà una delle ultimissime immagini per il mio libro fotografico, una monografia sulla civetta dal titolo: ATHENA – sulle tracce di una piccola dea, edito da Quercuslibris edizioni e con i testi della giornalista scientifica Francesca Buoninconti.

È il crepuscolo e, per fortuna, le fotocamere moderne restituiscono delle immagini accettabili, anche in condizioni di scarsa luminosità. Non ho un rapporto conflittuale con gli alti ISO. Qualche anno fa, pensare a questi risultati era impensabile. Alzare la soglia oltre certe “sensibilità” era più che un tabù.
Mi piace moltissimo la luce naturale, restituisce quasi fedelmente le condizioni al momento dello scatto. Quando però manca, ci sono delle accortezze da adottare, anche se dopo un po’ di esperienza non è difficile scegliere i settaggi giusti. In questo caso avevo bisogno di una fotografia di atmosfera, cercando di contestualizzare il soggetto con l’ambiente, cosa non semplice con il teleobiettivo.
Il diaframma del 500mm è a tutta apertura e con tempi sotto la soglia di sicurezza, per l’esattezza 1/80 sec. Ricordo quando ho iniziato questa avventura, oggi non mi sembra vero di usare spesso 25.600 ISO.
In un silenzioso batter d’ali, la civetta vola via. A breve sarà impossibile continuare la sessione. In lontananza, i canti del maschio fanno da colonna sonora a questa piacevole serata di inizio giugno. Ripongo l’attrezzatura e mi preparo per ritornare a casa.

Il primo incontro con una civetta è stato casuale. Sono rimasto immediatamente affascinato e, già dalle prime osservazioni, avevo intuito la possibilità di raccontare una storia che parlasse della mia esperienza personale con questo animale, comune ma elusivo. Un’opportunità per approfondire la conoscenza della biodiversità nei pressi dei luoghi dove vivo. Sapevo della sua elevata diffusione, ma non avrei mai immaginato di riprendere un accoppiamento addirittura dalla finestra di casa.
Di giorno, cercavo i luoghi che reputavo più indicati, mentre la sera attendevo la conferma della sua presenza, tendendo l’orecchio nella speranza di sentire i canti territoriali del maschio, oppure i gridi di allarme per la presenza di un predatore.

Più di quaranta vocalizzi, alcuni dei quali possono confondere un inesperto ascoltatore: avete mai sentito miagolare un uccello?
Anche le tracce che lascia dietro di sé sono importantissime: deiezioni e borre ci raccontano molto delle abitudini di un determinato individuo.

Documentare la vita di questo piccolo gufo significa adeguarsi alle sue abitudini. I primi anni, soprattutto, sono stati impegnativi. Dovevo capire cosa cercare e come tradurlo in una fotografia.
Tutti i posti che censivo mi sono stati utili per ricostruire il puzzle. Alcuni mi permettevano scatti ravvicinati, altri invece più ambientati. Questi ultimi sono quelli che preferisco e, paradossalmente, quelli che mi hanno fatto più dannare.

Le prime fotocamere che ho usato erano dannatamente rumorose: ogni scatto riecheggiava nel silenzio della campagna come un tuono. Ricordo di aver costruito un camera muzzle, trasformando un frigorifero di tela per ovviare al problema del rumore dello scatto. Farcito di gommapiuma, smorzava il rumore abbastanza da non far allarmare il soggetto. Lo usavo anche con il teleobiettivo, ma era stato pensato principalmente per le foto più ravvicinate.

Per questo progetto ho usato quasi tutte le lunghezze focali, privilegiando quelle più lunghe: molto spesso duplicavo il 500mm quando le condizioni di luce permettevano diaframmi più chiusi.

Quasi tutte le immagini del mio libro sono state ottenute tramite l’appostamento diretto; solo una piccola parte tramite scatto remoto o sensore di movimento, per l’esattezza undici su novantanove. Mi sarebbe piaciuto usare più spesso il grandangolo, ma le difficoltà erano molte e non volevo essere troppo invadente.
Utilizzare ottiche “corte” in fotografia naturalistica richiede una profonda conoscenza della specie che si vuole ritrarre. Non servono studi complicati, ma tanta osservazione sul campo, determinazione e la consapevolezza che le abitudini degli animali cambiano con le stagioni.
Quando si lavora con il grandangolo, ogni disturbo della civiltà entra nel fotogramma. Nei contesti antropizzati, ottenere scatti “puliti” è praticamente impossibile: tralicci, luci artificiali, costruzioni e inquinamento luminoso fanno parte del paesaggio. All’inizio cercavo la composizione perfetta, poi ho capito che quei “difetti” potevano trasformarsi in un valore aggiunto, raccontando il soggetto nel suo contesto.

Ci si può mimetizzare in mille modi, ma un gufo sa che sei lì. È impossibile ingannare un animale che percepisce una preda a decine di metri di distanza. Tuttavia, il camuffamento aiuta a ridurre la sua naturale diffidenza. La civetta condivide il suo territorio con l’uomo e, con il giusto approccio, si lascia osservare. Ho sperimentato di tutto: capanni fissi e mobili, l’automobile e la rete mimetica. Non ho una tecnica preferita: tutto dipende dalla scena che voglio riprendere.

Nel libro racconto la mia esperienza naturalistica a pochi passi da casa, una sorta di percorso che mi ha portato a soffermarmi su una specie in particolare. Grazie alla civetta, mentre passavo del tempo con lei, ho maturato una visione più consapevole sulla biodiversità che ci circonda, sicuramente meno antropocentrica.
Mi capitava spesso, durante le lunghe sessioni, di non sentirmi soltanto un osservatore, ma di far parte di qualcosa di più ampio, dove, anche se può sembrare banale, tutto appare interconnesso.
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