
di Astrid Sarrocco
Per secoli, prima che la chimica colorasse il mondo, i pigmenti nascevano dalla terra. Ogni sfumatura aveva un’origine viva. Terre, radici, cortecce, bacche, fiori, infiorescenze, addirittura insetti e molluschi custodivano colori e tonalità che parlavano di stagioni e territori. Mani pazienti si dedicavano alla raccolta e tingere era un gesto di conoscenza, di appartenenza territoriale e culturale in cui spesso il colore era profondamente unito non solo alla dimensione della vita pratica ma anche all’espressione, alla spiritualità e al mistero della trasformazione.
Al principio i pigmenti erano composti minerali contenenti metalli, il cui colore era determinato dagli elementi con cui entravano in contatto o con cui venivano combinati. I colori maggiormente usati erano tre: il rosso, il bianco e il nero – a cui si aggiunsero poi il giallo e il verde – ciascuno con una propria funzione e significato simbolico, che venivano combinati con grassi animali e resine vegetali.
In un’epoca in cui l’uomo viveva soprattutto di caccia, i riti propiziatori e l’animismo avevano un ruolo primario nelle società antiche e si attribuiva al colore una funzione protettiva piuttosto che decorativa. Questi colori, tra i più facilmente reperibili in natura, venivano impiegati per la realizzazione di pitture che trasformarono le caverne, primi ripari dei nostri antenati, in veri e propri santuari. In alcune di queste, come nelle Grotte di Lascaux in Francia, comparvero le prime raffigurazioni di cinghiali, cavalli, bisonti, cervi: la raffigurazione dell’animale non aveva uno scopo didascalico o narrativo, ma propiziatorio e apotropaico. L’animale raffigurato infatti non era considerato una semplice immagine: per chi lo dipingeva infatti era l’animale stesso.
Con lo sviluppo dell’agricoltura e della tessitura, alcune piante iniziarono ad essere coltivate appositamente garantendo una disponibilità costante e colori più stabili e vivaci: una conoscenza che si sviluppò quasi contemporaneamente in diverse regioni del mondo.
Tra le prime piante impiegate nella tintura naturale troviamo l’Alkanna tinctoria, alcune specie di Rhamnus e il Carthamus tinctorius, che ampliarono significativamente la tavolozza naturale disponibile. Erano inoltre impiegati diversi elementi per favorire l’adesione dei colori ai tessuti, i cosiddetti mordenti, sia di origine vegetale come l’Hyoscyamus niger (giusquiamo nero, pianta estremamente tossica), sia di origine minerale come il natron, una miscela di sali alcalini, estratta dai laghi salati o dalle saline naturali, soprattutto nel deserto del Sahara.Ogni colore raccontava una storia, un territorio, un sapere tramandato di generazione in generazione, custodito soprattutto da mani femminili che conoscevano il ritmo della natura e il linguaggio segreto delle fibre. Con il crescere degli scambi commerciali e delle civiltà, non solo le conoscenze legate al colore, ma anche molte specie di piante tintorie lasciarono i loro luoghi d’origine, diffondendosi in tutto il mondo.

Le prime testimonianze documentate sulla coltivazione di alcune di queste specie ad uso esclusivamente tintorio ci arrivano dall’Egitto e si svilupparono soprattutto intorno al III millennio a.C. – quasi nello stesso periodo in India si cominciava a coltivare l’Indigofera tinctoria.
Nella valle del Nilo la conoscenza del colore raggiunse livelli estremamente raffinati, come riportato nel celebre Papyrus Graecus Holmiensis, meglio noto come papiro di Stoccolma risalente al tardo III secolo d.C. e in alcuni frammenti del Papiro di Leida. In questi documenti sono indicate 159 ricette che descrivono processi di estrazione, mordenzatura e tintura naturale delle stoffe, talvolta con alcuni passaggi simbolici ed esoterici inerenti all’alchimia.
Dall’Egitto, attraverso scambi commerciali, battaglie e viaggi, le conoscenze di questo popolo e le piante tintorie ivi coltivate si diffusero in tutto il bacino del Mediterraneo.
Quasi contemporaneamente, sulle sponde del Mare Nostrum, la civiltà fenicia sviluppò e perfezionò la produzione della porpora, un colorante estratto da alcuni molluschi appartenenti alla famiglia dei Muricidae che,proprio a causa della sua scarsa reperibilità e del complesso processo di estrazione, divenne presto simbolo di potere e di rango elevato – era infatti utilizzata per tingere le vesti di illustri personaggi del calibro di Alessandro Magno, come racconta Plutarco nella sua opera “Vite Parallele”.
Anche se in queste epoche la percezione del colore non era la stessa che abbiamo noi – spesso infatti i colori venivano distinti più per la loro luminosità che per la tonalità, come nel caso dei Greci, che non differenziavano tra blu e verde e utilizzavano un’unica parola per indicarli entrambi – l’eco dei loro significati simbolici ci accompagna lungo tutta la storia e risuona ancora oggi.
Il blu richiamava il divino e la protezione; il rosso la vita e la forza; il giallo la luce e l’incorruttibilità del sole; il porpora il potere, mentre il nero e il marrone erano legati alla terra, al ciclo della morte e della rinascita. In particolare, in Egitto il nero evocava il limo fertile del Nilo, simbolo di rigenerazione dopo la piena e di vita che rinasce dalla terra stessa.
Il blu, quando non derivava da minerali come il turchese o il lapislazzuli, si otteneva dalle foglie fermentate di Isatis tinctoria o di Indigofera tinctoria; il rosso nasceva dalle radici della Rubia tinctorum; il giallo dalla Reseda luteola e dalle infiorescenze della Genista tinctoria.
Il verde, invece, era più difficile da ottenere e non sempre stabile: si producevano tonalità di verde combinando reseda e indaco, oppure i tannini contenuti nelle bucce del melograno con solfato ferroso, ma queste sfumature risultavano spesso poco resistenti alla luce e al lavaggio.
Il nero e il marrone, infine, si ricavavano dalle cortecce e dai tannini del bosco.
Durante il Medioevo Europeo trovavano larga diffusione soprattutto questi ultimi due colori, sia per la facile reperibilità di elementi come galle di quercia e malli di noce ma anche per un preciso codice cromatico intrinseco alla società del tempo: erano questi, infatti, i colori dei monaci e delle classi meno abbienti che costituivano la maggioranza della popolazione, mentre al clero, ai monarchi e ai signori erano riservati tinte più sgargianti e pregiate.
Fu proprio in questo periodo storico che si diffuse anche il celebre inchiostro ferrogallico – un composto di galle di quercia e solfato di ferro – che, grazie ai monasteri e agli amanuensi, rese possibile la diffusione di testi, codici e leggi fino ai giorni nostri.
L’importanza del colore nella storia viene spesso sottovalutata, ma è interessante notare come ogni tessuto, fino all’Ottocento – e che oggi possiamo ammirare in opere d’arte come quadri o affreschi – fosse sottoposto ad un processo di tintura accurato: un sapere antico tramandato nei secoli e che, in base al periodo storico, alla cultura e alle tradizioni del momento, ci restituisce uno sguardo sul passato e sugli elementi naturali più diffusi.

Con l’avvento dei coloranti sintetici, tra Ottocento e Novecento, questo patrimonio millenario si è progressivamente dissolto. La velocità, la resa e la standardizzazione delle tinte chimiche hanno relegato le piante tintorie a un passato “romantico”. Al loro posto vengono usati colori ottenuti da materie poco sostenibili, capaci di durare più a lungo nel tempo — dimenticando però che non sempre è un bene quando un colore non torna alla natura, perché ciò che non si degrada non si reintegra.
I coloranti moderni, infatti, derivano per lo più da composti sintetici ottenuti da catrame di carbone o da derivati petrolchimici, e devono la loro popolarità alla stabilità, alla vivacità e alla varietà delle tonalità, più che a un legame con la natura. Al colore e al sapere si è preferita la rapidità e la riproducibilità: basti pensare che oggi sono disponibili circa 4.000 coloranti di sintesi rispetto alla dozzina di coloranti naturali utilizzati in passato.
Oggi, in un tempo che riscopre la lentezza e il valore della sostenibilità, le tinture naturali tornano a fiorire non solo come gesto artigianale, ma come scelta culturale ed ecologica.
Tornare ai colori vegetali significa ristabilire un legame con la terra con le stagioni, con il ciclo vitale delle piante attraverso una conoscenza profonda delle loro proprietà. Significa riconoscere che ogni sfumatura naturale è irripetibile, come un’impronta che, interagendo con elementi come luce, acqua e tempo, cambia, si trasforma e vive.
La rinascita delle tinture naturali coinvolge artisti, designer, agricoltori e ricercatori creando una rete che unisce tradizione e innovazione. Questo fenomeno non è un ritorno nostalgico al passato, ma un campo di innovazione in pieno sviluppo. Una parte della ricerca scientifica lavora oggi alla stabilizzazione dei pigmenti vegetali, alla riduzione dei consumi d’acqua e alla rigenerazione dei terreni agricoli: la coltivazione di specie tintorie, infatti, può favorire la biodiversità e, se inserita in pratiche agricole sostenibili e rotazioni mirate, contribuire anche alla fertilità del suolo, integrando conoscenze antiche con strategie ecologiche moderne.
Riscoprire le piante tintorie significa restituire valore alla biodiversità, ai paesaggi boschivi e ai terreni agricoli minori oltre che ai saperi locali. Nuovi progetti di coltivazione sostenibile come gli orti tintori e sperimentazioni di tecniche innovative su fibre biodegradabili mostrano come la conoscenza antica possa dialogare con la scienza moderna nell’ottica di una sempre maggiore sostenibilità.
Artisti e laboratori storici stanno esplorando le possibilità delle vecchie tradizioni tintorie e dei pigmenti vegetali su abiti, accessori e materiali innovativi, mentre progetti educativi coinvolgono scuole e comunità locali per tramandare le conoscenze sulle piante e sui colori. In questo modo, ogni sfumatura diventa veicolo di identità e consapevolezza ecologica, trasformando la tintura naturale in uno strumento attuale di sostenibilità e innovazione.
È un ritorno al colore come materia viva e strumento di memoria territoriale, non come superficie artificiale. Ogni tintura diventa una piccola forma di r-esistenza, un modo per ricordare che la natura non è solo fonte d’ispirazione, ma anche di equilibrio e di futuro.
In questo viaggio tra pigmenti e radici, ogni pianta sarà una tappa, ogni colore una storia: un invito a guardare la terra non solo come sfondo, ma come matrice viva di infinite sfumature della Natura, pronta a raccontare passato, presente e futuro attraverso piante storiche, specie spontanee, laboratori e mani che ancora oggi sperimentano e interpretano il colore naturale.


