Marghine e Goceano: le selve dell’Astore sardo

di Marco Corda

Nella parte centro-settentrionale della Sardegna vi è una circoscritta area geografica di origine vulcanica, estesa per oltre cinquecento chilometri quadrati. Un territorio coperto da fitte foreste di latifoglie e conifere, solcato da decine di corsi d’acqua che, come arterie, creano una fitta trama insinuandosi in valli e pianure rendendole fertili e coltivabili: è la zona del Marghine e del Goceano; uno dei più rinomati polmoni verdi dell’isola.

La coreografica cascata di Mularza Noa durante una piena invernale (© Marco Corda)

Mularza Noa è una coreografica cascata nel cuore del Marghine, che con il suo modesto salto di oltre diciotto metri tra rocce e licheni, offre durante le sue piene invernali un pittoresco quadro armonioso e idilliaco. L’acqua arriva impetuosa dall’altopiano di Ortachis, sito poco più a monte, dando vita al rio Biralotta che rappresenta uno dei più importanti affluenti del fiume Coghinas. Addentrandosi e seguendo il corso d’acqua si scopre un territorio selvaggio e ricco di fascino ancestrale dove regna sovrana la felce florida (Osmunda regalis), la specie di maggiori dimensioni presente in Europa, e vegetano infiniti tappetti di ranuncoli bianchi.

Microcosmi vulnerabili e delicati, habitat d’elezione di specie fragili come la raganella sarda (Hyla sarda) e la natrice di Cetti (Natrix helvetica cetti), un piccolo rettile appartenente alla famiglia delle Natricidae, specie localizzata e protetta dalla Direttiva Habitat e dalla convenzione di Berna. Nella lista Rossa IUCN è inserita come specie “in pericolo critico”, mentre nella lista Rossa italiana è classificata come “vulnerabile”. Una peculiarità di questa specie è la grande variazione cromatica tra gli individui: gli esemplari posso avere livree a fasce nere o con macchie contrapposte, con ornamentazioni che spesso creano dei veri e propri ocelli scuri con centro più chiaro ed ancora, e non è raro rinvenire esemplari melanotici, ovvero con livrea tendenzialmente molto scura.

Natrice di cetti ripresa nel suo habitat naturale (© Nicola Zara)

Il terreno è ricoperto da un fitto strame di foglie secche di roverelle e aceri minori, le due specie che insieme all’agrifoglio rappresentano il climax più evoluto di questo ecosistema. Altra specie di notevole importanza botanica, anch’essa endemica, è il Rovo di Arrigoni (Rubus arrigonii), che con tutta probabilità, vegeta esclusivamente in questo areale dove per condizioni di microclima unico ha trovato il suo biotopo ideale.

Tasso secolare di Badde Salighes (© Fabio Ghisu)

Menzione a parte merita il tasso (Taxus baccata), specie relitta del terziario, che ha trovato solo in questo angolo di Sardegna le condizioni ideali per la sua rinnovazione naturale. Pianta sciafila, dioica e sempreverde, particolarmente esigente in termini di clima ed esposizione, vegeta generalmente sopra gli 800 m.s.l.m. Anche noto volgarmente come “albero della morte” in quanto tutte le sue componenti, ad esclusione dell’arillo (la protezione carnosa che avvolge il vero seme) contengono un alcaloide tossico, la tassina. Nel Goceano, è presente l’ultima foresta di tassi dell’isola, nonché la più importante d’Italia per estensione, valore paesaggistico ed ambientale: “Sos Nibberos”, che in sardo significa appunto “i tassi”; è una suggestiva località che fa parte del comprensorio della foresta demaniale di Monte Pisanu tra i comuni di Bono e Bottida. La foresta, dichiarata monumento naturale dal 1994 è estesa per circa sei ettari e vanta 600 magnifici esemplari, catalogati e censiti, alcuni alti 11 metri; il più imponente resiste imperterrito in un’ombrosa depressione ricca di sorgenti e pozze d’acqua e il tronco, liscio e scuro, ha una circonferenza a petto d’uomo di sette metri e si dirama al cielo con quattro possenti branche verticali. L’esemplare, come del resto la maggior parte della popolazione, sembra godere di ottima salute a conferma che a Sos Nibberos da secoli, ci sono le condizioni ideali per la sopravvivenza di questa fragile specie.

Magnifico esemplare di Tasso (© Fabio Ghisu)

Ma il vero ed indiscusso patriarca vegeta resiliente in un’altra località poco distante chiamata “Badde salighes”, (la valle dei salici) nei pressi della sontuosa Villa dell’ingegnere gallese Benjamin Piercy che nel XIX secolo progettò e diresse i lavori della prima rete ferroviaria dell’isola: un’operazione mastodontica, che agevolò senza ombra di dubbio il commercio e le comunicazioni, ma che fu anche una delle cause principali della massiccia opera di deforestazione sarda.

L’aspetto tozzo e compatto non rende giustizia alla sua età, stimata dai botanici tra i 1300 e i 1500 anni (supponendo un accrescimento radiale di 1 mm all’anno). Il tronco con le tipiche scanalature a “canne d’organo”, misura alla base una circonferenza di 850 cm mentre a petto d’uomo raggiunge una circonferenza di oltre sette metri e mezzo; la chioma, densa, scura e intricata raggiunge i 12 metri di altezza.

Il vecchio Tasso di Sas Nibberos (© Marco Corda)

L’aria, soprattutto nelle giornate uggiose e invernali è impregnata dell’odore del muschio, delle annose cortecce e della terra umida rivoltata costantemente dal grugno dei cinghiali. Si può camminare per ore in un ambiente fiabesco pressoché simile e monotono, e il senso dell’orientamento può giocare brutti scherzi.

Poco più a sud, nel territorio di Illorai un’altra foresta vetusta cela al suo interno un tesoro unico in tutto il bacino del mediterraneo: è la roverella di “sa Melabrina”, la più grande ed antica di tutta l’Europa. Con un’età stimata di oltre 1000 anni, presenta un diametro alla base di 11.50 metri ed una altezza di circa 30 metri. Nonostante una delle branche principali abbia ceduto al peso delle intemperie, questo patriarca resiste imperterrito. Sostare al suo cospetto ci fa sentire solamente piccoli ospiti di passaggio in questo mondo.

La monumentale Roverella di Sa Melabrina (© Marco Corda)

Tutta la foresta è il regno dell’astore sardo (Accipiter gentilis arrigonii), sottospecie endemica che differisce da quella nominale soprattutto per le dimensioni, leggermente inferiori e per il piumaggio nettamente più scuro. Sovrano indiscusso delle selve più recondite, questo rapace è un vero e proprio fantasma del bosco, una presenza evanescente che consuma la sua schiva esistenza celato tra le ombrose fronde degli alberi. Plasmato per la caccia palpitante tra i fusti della foresta, la sua dieta è costituita principalmente da uccelli di media taglia come colombacci, ghiandaie, merli e corvidi, ma può catturare anche giovani conigli e lepri, pratica ben nota ai sardi di campagna che chiamano in dialetto il rapace: “s’astore leporarju”. Costruisce un nido tozzo e voluminoso tra le principali biforcazioni degli alberi, scelti e valutati con sapiente criterio, e tra aprile e maggio vi depone dalle due alle quattro uova. La stagione riproduttiva coincide con la fine dell’inverno, quando il maschio, ornato di un bellissimo sottocoda bianco e vaporoso, corteggia la femmina con ipnotici voli a festoni spingendosi ben oltre il limite delle chiome della foresta.

Givoane Astore (© Marco Corda)

Il passaggio fugace di un astore è un qualcosa di appena percepibile, come in un sogno, tutto si ferma e un silenzio tombale irrompe prepotentemente nella quotidianità dei più piccoli abitanti della foresta. Cince, merli, ghiandaie e colombacci si scambiano in codice premonitori segnali d’allarme. Sostare nelle piccole radure tra la foresta spesso e volentieri rende queste prede vulnerabili al fluttuare fulmineo del rapace. Sarà un verso improvviso e satanico a ristabilire un po’ di tranquillità momentanea: è il grido trionfante del maschio che ha appena estratto a sorte la sua preda sacrificale e orgoglioso e severo richiama l’attenzione della consorte, che senza indugi arriverà nel ramo prescelto per carpire il bottino. Del vorace pasto non resterà altro che una soffice spiumata del malcapitato, che verrà lentamente setacciata dal vento.

Le selve del Marghine e del Goceano, raccontano però anche fatti di storia e cronaca vissuta come quella del terribile incendio di Badu Addes, ad Anela, che nel lontano 31 luglio del 1945 bruciò ininterrottamente oltre mille ettari di macchia e foreste, dove persero la vita sette tenaci “guardia fogos”, rimasti tragicamente intrappolati tra le fiamme. Oggi, una lapide granitica che sovrasta una fitta foresta mediterranea ricresciuta dopo tanti anni ha inciso la profonda frase:

“…Ogni cuore cittadino bruciando d’amore sia lampada votiva per chi morì nelle fiamme – Sette eravamo e tutti siam periti, dal fumo e dal fuoco inseguiti – 31.7.1945”.

Astore sardo su un posatoio abituale (© Marco Corda)

La piaga degli incendi in Sardegna, unitamente a quella del disboscamento attuato principalmente tra la fine dell’Ottocento e inizi novecento è la causa principale della desertificazione della regione.

Un fenomeno che si presenta puntale ogni anno, di difficile controllo, di difficile previsione, ma con buone pratiche silvi-colturali di facile prevenzione. Oggi più che mai occorre affinare una pratica e moderna gestione del patrimonio boschivo sardo che vede regolamentate le attività cardine come pascolo e taglio. Fortunatamente siamo già sulla giusta strada e i numeri parlano chiaro: la superficie totale delle aree boscate è di circa1.213.250 ettari, pari a oltre il 50% del territorio isolano, un’asticella che è bene tenere alta, ma per far ciò è necessaria una capillare opera di sensibilizzazione per garantire una continuità alle generazioni future. Un antico proverbio dei nativi americani recita: “Non ereditiamo la Terra dai nostri antenati, la prendiamo in prestito dai nostri figli”.

 

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